Il gatto del mondo
- sabrinalotauro

- 28 set 2024
- Tempo di lettura: 4 min
Aggiornamento: 22 mar

Tutto intorno ai noi sembrava un campo di battaglia.
Nel catòjo di Angela era rimasto tutto in disordine e fuori posto. Vanghe e zappe, forche e rastrelli, seghetti e crivelli, pezzi di ricambio di macchine agricole, vecchi copertoni, tutti complici di un nascondiglio sicuro nel buio di quella stanza terragna. Tutti ostacoli da rimuovere per fare entrare meglio la debole luce dalla porta e con lei la nostra decisa volontà di afferrare quel gattino velocissimo che non si arrendeva a farsi prendere.
Esauste e trafelate, in mezzo a quella polvere nera che ci copriva le mani e la faccia, abbiamo ripreso fiato sedute per terra con lo sguardo soddisfatto. Era così tanta la mia felicità che non sentivo il miagolio incessante e i graffi sulle mie braccia. Angela mi aveva detto che se fossi riuscita a prenderlo me lo avrebbe regalato e che potevo portarlo a casa. Adesso era mio!
Forte dei miei otto anni e della mia indipendenza di pensiero, nonostante il disappunto di mia madre, già espresso molte volte in passato di fronte al mio desiderio di adottare un gattino, avevo colto un’occasione fortuita che si era presentata all'improvviso in uno di quei rari pomeriggi in cui mi veniva concesso di andare a giocare per strada.
Adesso possedevo il mio gattino e il senso di possesso era tanto più forte quanto più guardavo le mie mani e i miei vestiti graffiati e sgualciti da quegli artigli che non si stancavano di attaccarmi. Ma io lo tenevo stretto a me nel cammino verso casa, orgogliosa e felice, inconsapevole della mia crudeltà, giustificata solo dal mio immenso desiderio di avere cura e di fare da mamma a un gattino che una mamma ce l’aveva già e non voleva cambiarla. Non potevo capire quanto male stessi facendo a quella creatura selvatica che non si sarebbe mai lasciata addomesticare, mentre io immaginavo solo tenerezze.
Nel salire quattro piani senza ascensore era tutto uno scorrere di immagini veloci, le coccole e le fusa, il cibo da comprare, un piccolo collare con un dolce sonaglino e poi…dovevo dargli un nome. Per quello mi sarei presa qualche ora di tempo. Il nome è una cosa importante, si sa, costruisce un legame per tutta la vita.
Sempre più felice, volavo sui miei passi. Ero certa che, a cosa fatta, la mamma non avrebbe potuto dirmi di no. Sentivo che a giustificarmi era tutta la fatica che avevo fatto, che lei avrebbe capito, e forse, ne sarebbe stata anche un po' fiera.
Non ho mai dimenticato lo sguardo di mia madre di quel pomeriggio e quel suo coraggio nello spegnere l’entusiasmo nel mio cuore e nei miei occhi. La risposta, come era prevedibile per tutti, tranne che per me, è stata un irremovibile ed ennesimo no. Allora ho cominciato a sentire il dolore delle ferite sulle mie mani, la stanchezza, il fiatone e persino quel miagolio incessante. Insieme, io e quel gattino, in quel preciso istante, eravamo entrambi infelici.
Nei giorni che seguirono mi fece compagnia una consolante coppia di pesciolini rossi, il massimo grado di sviluppo biologico permesso in casa. E con il tempo, crescendo, ho smesso di rimuginare su quell’episodio per cui mi incolpavo di non essere stata più incisiva e combattiva.
Anche se mia madre me l’avesse lasciato tenere, quel gattino non sarebbe mai stato mio!
Non ho più avuto un gatto, neanche da adulta, forse perché mi sono liberata anche di quel senso di rivalsa che hanno i ragazzini nei confronti della loro giovane età, pensando di recuperare ciò che vogliono in un tempo migliore. Ma torno a pensare con tenerezza, da qualche tempo, a quel gattino senza nome, da quando un grosso gatto pezzato si aggira nei pressi di casa mia. Un gatto del mondo, che ha deciso di frequentare il mio giardino e che non mi lascia indifferente. L'accetto di buon grado quando decide di concedermi un po’ delle sue attenzioni, quando decide di stare fermo lì a guardarmi da lontano, prudente e vigile, mentre io, nel massimo rispetto, compio movimenti lenti e controllati, senza andare oltre quel sottile confine, per non sciupare tutto.
Mi piace pensare che il gatto del mondo abbia scelto di diventare mio…
È mio quando si adagia dietro i vetri del balcone per ore e mi guarda mentre stiro, mentre cucino o mentre parlo al telefono.
È mio mentre mantiene la stessa costante distanza di sicurezza quando mi muovo e poi ritorna a fermarsi quando mi fermo.
È mio quando sparisce per tutto il giorno e si ripresenta ogni sera alla stessa ora, miagolando, e io gli parlo sottovoce, mentre aspetta pazientemente una piccola ricompensa alla sua debole fiducia.
Non gli chiedo nulla, mi accontento della sua compagnia e io faccio le fusa mentre lui accarezza la mia tenerezza con i suoi dolci occhi fissi su di me. Mi piace pensare che il gatto del mondo abbia scelto me per un po' di compagnia.
Ogni giorno, il nostro incontro speciale è fatto di silenzi e di sguardi. Al termine di una giornata, dopo fiumi di parole e di violenza verbale, in cui ciascuno deve dire la propria opinione soverchiando chi ascolta, spesso persuadendo, estorcendo consensi, incontro questa straordinaria creatura solitaria che della crudeltà del mondo ha ormai esperienza e se ne sta sola, guardinga, a vagabondare in cerca di cibo.
Mi ha aiutata a capire meglio che la fiducia non si compra, non si carpisce con la forza, ma passa dal silenzio, dall’attesa, dal rispetto, spesso da un canale comunicativo fatto solo di gesti e di sguardi attenti.
È una palestra di empatia Mascherina.
Sì, Mascherina, questo è il nome che mi sono permessa di dargli. L’unica libertà che mi sono concessa con lui. È la debole pretesa, nutrita di speranza, che chiamandolo per nome, nel suo vagabondare porti con sé il suono della mia voce.



